Fuga di giovani dall’Italia: manca il lavoro, e si riapre il gap Nord Sud

I giovani non vogliono stare in Italia, e continuano ad andarsene. Soprattutto i laureati, o chi ha elevati livelli di istruzione. Di fatto, il saldo migratorio verso l’estero ha raggiunto 50mila giovani nel Centro-Nord e 22mila nel Sud. Dal 2000 hanno lasciato il Mezzogiorno 2.015 mila residenti, di cui la metà giovani fino a 34 anni e quasi un quinto laureati. Ma da quanto emerge dal Rapporto Svimez 2019 il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa. Alcune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per Pil molte regioni ricche italiane, avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività.

Il Sud perderà 5 milioni di persone e quasi il 40% del Pil

Secondo il rapporto, per effetto della rottura dell’equilibrio demografico (bassa natalità, emigrazione di giovani, invecchiamento della popolazione) il Sud perderà 5 milioni di persone e, a condizioni date, quasi il 40% del Pil. Solo un incremento del tasso d’occupazione, soprattutto femminile, può spezzare questo circolo vizioso. Per la Svimez, quindi, bisogna tornare a una visione unitaria della stagnazione italiana, smarcandosi dalla lettura dell’aumento delle disuguaglianze esclusivamente legata al confine immutabile tra Nord e Sud, riporta Adnkronos. Per questo motivo vanno valorizzate le complementarità che legano il sistema produttivo e sociale delle due parti del Paese.

Si riapre il divario fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno

Nell’ultimo decennio il gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord è aumentato dal 19,6% al 21,6%. I posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Centro-Nord sono quindi circa 3 milioni. Anche perché la crescita dell’occupazione nel primo semestre del 2019 riguarda solo il Centro-Nord (+137.000), cui si contrappone il calo nel Mezzogiorno (-27.000). Al Sud aumenta inoltre la precarietà, che si riduce nel Centro-Nord, e riprende a crescere il part-time (+1,2%), in particolare quello involontario, che nel Mezzogiorno si riavvicina all’80% a fronte del 58% nel Centro-Nord. Stando al rapporto, la riapertura del divario Centro-Nord Mezzogiorno riguarda anche i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0,7%.

La vera sfida è un’attuazione ordinata del federalismo fiscale

Per colmare il deficit infrastrutturale, secondo la Svimez, le richieste di regionalismo differenziato vanno valutate nel contesto di un’attuazione organica e completa del nuovo Titolo V. Secondo Svimez, in quest’ottica il confronto sulla valorizzazione delle autonomie e la riduzione delle disuguaglianze va depurato dalle scorie rivendicazioniste provenienti da Nord e da Sud. E va riportato sui temi nazionali della qualità delle politiche di offerta dei servizi pubblici, e su quelle necessarie per la ripresa della crescita. La vera sfida, sottolinea l’associazione, è un’attuazione ordinata del federalismo fiscale. Una sfida basata sulla definizione dei costi standard e dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) al fine di assicurare pari diritti di cittadinanza, e un Fondo perequativo per colmare il deficit infrastrutturale.

Dal 2008 più occupati, ma più lavoro a tempo determinato

Nel secondo trimestre del 2019 il numero di occupati supera il livello dei corrispondenti tre mesi del 2008, crescendo di 283mila unità. Secondo uno studio della fondazione Di Vittorio (Cgil) cambia tuttavia la composizione dell’occupazione: i dipendenti full time a tempo indeterminato nello stesso periodo calano di 544mila unità, così come calano gli indipendenti, che diminuiscono di 581mila unità nel tempo pieno e di 51mila nel part time. Tra i lavoratori dipendenti crescono invece sia i part time (+732mila a tempo indeterminato e +385mila a termine) sia i contratti a tempo determinato, che aumentano di 726mila unità in totale, e di cui circa il 50% è ricompreso nel part time.

Peggiora sensibilmente la qualità dell’occupazione

Se si prendono in esame le tipologie di lavoro, la qualità dell’occupazione, nonostante la variazione positiva dello stock di occupati, peggiora sensibilmente, anche per le caratteristiche di involontarietà che la contraddistinguono. Lo conferma il fatto che nel secondo trimestre 2019 le ore lavorate siano ancora inferiori al dato dei secondi tre mesi del 2008 (-5,1%). Il calo è maggiore tra gli indipendenti (-14,1% di ore lavorate), che risentono di una contrazione anche nel numero assoluto di occupati. Ciò nonostante la quota di occupati indipendenti in Italia è pari al 23%, contro meno del 15% nell’Eurozona.

Il part time involontario prosegue la sua crescita e arriva al 64,8%

Per il lavoro dipendente lo scarto residuo è del -0,8%, in presenza però di un numero decisamente maggiore di occupati rispetto al 2008 (oltre 900mila). Quindi, con un consistente minor numero di ore effettive pro capite, mentre dovrebbero essere più alte. Questo per effetto dell’aumento del part time e per vuoti di attività legati al tempo determinato. E se la percentuale del part time è leggermente inferiore alla media dell’Eurozona in Italia è nettamente più alta la percentuale di part time involontario. Che nel 2019 prosegue la sua crescita, arrivando nel secondo trimestre al 64,8%, pari a 2,9 milioni di occupati.

Cala il tasso di disoccupazione, ma resta più alto della media Eurozona

Questo utilizzo di part time e tempo determinato involontario è plausibilmente utilizzato da una parte di imprese al fine di rendere i costi competitivi, facendo crescere la quota di lavoro povero nell’occupazione. Al basso tasso di occupazione italiano, sottolinea la fondazione Di Vittorio, corrisponde un tasso di disoccupazione in calo, ma che resta più alto della media dell’Eurozona, riferisce Askanews. Di conseguenza, in Italia il tasso di inattività al secondo trimestre 2019 è del 34%, +7,6 punti percentuali rispetto all’Eurozona.

Si tratta di circa 13 milioni di persone, di cui circa il 70% dichiara esplicitamente di non essere interessato a lavorare, e tra cui si cela una quota di disoccupazione nascosta.

Cuneo fiscale, quanto incide sui salari italiani ed europe

Secondo il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 in Italia nel 2018 il cuneo fiscale era pari al 47,9%, la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. In pratica, considerando la busta paga di un lavoratore medio, pari a circa 30 mila euro lordi, su 100 euro lordi l’anno scorso il netto era di 52,1 euro. Quasi la metà.

Ma cos’è il cuneo fiscale? Il Tax wedge (in inglese) è definito dall’Ocse come il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore. Nella definizione oltre alle tasse in senso stretto sono compresi anche i contributi previdenziali.

Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente, ma nelle casse dello Stato.

Il sistema pensionistico italiano

Nel caso dei contributi i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione. Ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono erogate oggi. In pratica, riporta Agi, il pensionato non incassa quanto lui stesso ha versato nel corso della vita lavorativa: non ha un conto personale e separato presso l’Inps.

Sul podio del cuneo più “pesante” Belgio, Germania e Italia

Il rapporto dell’Ocse contiene anche una classifica dei suoi Stati membri in base al peso del cuneo fiscale. Considerando che la media Ocse è del 36,1% nel 2018 l’Italia è terza in classifica, con il 47,9% di cuneo fiscale. Davanti al nostro Paese si posizionano la Germania, con il 49,5%, e il Belgio, primo in classifica, con un cuneo fiscale e contributivo pari al 52,7%. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6%, a pari merito con l’Austria, seguite da Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia.

Il Regno Unito è il Paese europeo membro Ocse con il cuneo fiscale minore

Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi si posizionano molto più in basso nella classifica: la Spagna è sedicesima con il 39,6%, la Polonia ventesima con il 35,8%, e il Regno Unito ventitreesimo. Con il 30,9% poi il Regno Unito è tra i Paesi Ue anche membri dell’Ocse quello con il cuneo fiscale minore.

In fondo alla classifica dell’Ocse non si trova nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, con appena il 7% di cuneo fiscale, e davanti, ma staccati per più di 10 punti percentuali, Nuova Zelanda (18,4%) e Messico (19,7%).

Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2%.

Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6%.

Vivere da vincenti, il segreto dei Millennials che credono in se stessi

Se solo 4 Millennials su 10 si sentono dei vincenti, 8 su 10 non smettono di credere in se stessi, celebrando piccole vittorie quotidiane. Per più di un millennial su 2 (54%), la carriera è l’obiettivo numero 1, ma solo il 25% si sente pienamente realizzato. In amore è invece soddisfatto il 39%, dove è soprattutto la donna a volere come obiettivo a lungo termine mettere su famiglia (68%).

Lo ha scoperto uno studio condotto su più di 800 italiani dai 20 ai 35 anni da Grey Goose, brand premium di vodka, insieme all’istituto di ricerca Trade Lab.

Apprezzare le piccole cose della vita celebrandole con positività

Secondo lo studio, l’universo femminile dei Millennials riconosce che dovrebbe essere più sicuro e determinato (58%), mentre il 50% degli uomini ritiene che per vincere bisogna essere più coraggiosi e ottimisti. Per quasi 3 su 10 poi l’esempio da seguire sono i genitori, ma non mancano i modelli di coloro che ce l’hanno fatta, tra tutti Bebe Vio (24%), Alex Zanardi (19%) e Nelson Mandela (13%). In generale i Millennials adottano una filosofia di vita che prende il nome di Live Victoriously, ovvero vivere da vincente, per cui la ricetta dell’affermazione personale è apprezzare le piccole e grandi cose della vita celebrandole con la giusta positività, riporta Ansa.

Coltivare un’attitudine che trasmetta energia positiva

“Essere vincenti è prima di tutto uno stato mentale – commenta Michele Cucchi, psichiatra e Direttore sanitario del Centro Medico Santagostino – e non significa necessariamente essere ricchi, belli e in forma. È importante innanzitutto convincersi che a decidere se si è vincenti o meno non sono gli altri, ma solo se stessi”.  Il segreto consiste nel focalizzarsi sui piccoli passi da seguire, “ogni giorno faremo qualcosa di piccolo ma speciale – aggiunge l’esperto -. Questa attitudine trasmette energia positiva e permette di vivere come opportunità errori e difficoltà”.

“Concedersi la giusta ricompensa in termini di celebrazione dei traguardi raggiunti”

Seguire questo approccio porta dei sicuri vantaggi anche a livello di benessere psicofisico, fa sentire più vivi, tonici, meno stanchi, e soprattutto dà leggerezza. Alimentando il sistema ortosimpatico, cioè quello che determina funzioni di attacco o di fuga, si è più concentrati e lucidi. “Ma a fare la differenza è soprattutto un approccio mentale che preveda concedersi la giusta ricompensa in termini di celebrazione dei traguardi raggiunti di volta in volta – sottolinea Cucchi -. Concedersi uno stacco aiuta a ricaricarsi e a vivere con il giusto equilibrio, tra senso di responsabilità e leggerezza, ogni passaggio importante o sfida quotidiana. Una ricompensa che aiuta lo spirito e permette di uscirne rafforzati per tagliare nuovi traguardi”.

Nel 2018 le famiglie riprendono a risparmiare, ma frenano i consumi

Nel 2018 le famiglie hanno risparmiato l’8,1% del loro reddito disponibile, una quota leggermente più alta dell’anno precedente, quando si attestava al 7,8%. Dopo quattro anni di calo, nel 2018 la propensione al risparmio delle famiglie sale, ma la spesa per consumi, se in termini correnti aumenta dell’1,6%, appare in decisa decelerazione rispetto al 2017, quando si attestava al +2,7%, e con una dinamica inferiore a quella del reddito disponibile (+1,9%).

Secondo dati Istat, a favorire la crescita di quest’ultimo sono state le retribuzioni, cresciute del +2,9% rispetto al 2017, e le prestazioni sociali ricevute, circa 7,9 miliardi in più dell’anno precedente.

Fra il 2009 e il 2012 la propensione al risparmio delle famiglie crollata al 7,1%

Nel periodo compreso fra le crisi del 2009 e del 2012 la propensione al risparmio delle famiglie era crollata dall’11,2% al 7,1%, accelerando una discesa già presente a partire dal 2005. E se dal 2005 al 2009 la sua riduzione era stata sospinta da un aumento della spesa per i consumi finali (+1,9% in media sul periodo) più intensa rispetto all’incremento del reddito disponibile (+1,5% in media), nel periodo 2009-2012 si è assistito nel complesso a una crescita moderata dei consumi (+1,4% in media sul periodo), a fronte di una sostanziale stabilità del reddito disponibile (-0,1% in media).

Nel 2013 e nel 2014 tendenza al rialzo

La lenta uscita dalla crisi è stata caratterizzata da un andamento incerto della propensione al risparmio, che secondo l’Istat ha mostrato una tendenza al rialzo nel 2013 e nel 2014, a fronte di una lieve dinamica positiva del reddito disponibile, per poi discendere fino al 2017, a seguito della risalita della spesa per i consumi.

I redditi da capitale netti sono sostanzialmente stabili

Nelle società non finanziarie il valore aggiunto cresce del 2,5% (+3,0% l’anno precedente) mentre continua a diminuire il tasso di profitto (41,7%). Sale al 21,2% il tasso di investimento (20,6% nel 2017). Il valore aggiunto cresce poco per le piccole imprese, definite “famiglie produttrici” (+0,2%) e scende per le imprese finanziarie (-4,2% da 2,6%). I redditi da capitale netti sono invece sostanzialmente stabili, confermando l’andamento poco vivace degli ultimi anni. In particolare, la quota di reddito generata dall’attività di produzione per il mercato svolta dalle famiglie (reddito misto), che gli imprenditori scelgono di destinare alle proprie necessità di consumo e di risparmio, aumenta solo dello 0,4%, in conseguenza del rallentamento della loro attività produttiva.

 

Giovani e smartphone, quando il Giga detta legge

I giovani sembrano non volersi mai accontentare, e sono pronti anche a tradire ripetutamente… l’operatore telefonico. Nel rapporto con il proprio smartphone, e in particolare, con i piani tariffari, i ragazzi sono sempre alla ricerca dell’offerta più conveniente e del numero di Giga più alto. E cambiano operatore di frequente, per poter sfruttare meglio Instagram e WhatsApp. A farlo emergere è una ricerca di Skuola.net, realizzata per TIM, su 15000 ragazzi tra gli 11 e i 25 anni, per capire quali sono le abitudini delle nuove generazioni con i propri dispositivi mobili.

Più traffico o più Rete?

Alla domanda “meglio chiamate illimitate o dati pressoché infiniti?” quasi 8 giovani su 10 (79%) puntano tutto sui secondi. Più di 1 su 2 affronta decisamente male la fine del monte dati, e se il 46% attende con ansia il rinnovo dell’offerta l’8% acquista immediatamente traffico supplementare. Oltre 7 su 10 barattano però volentieri un po’ di Giga con una Rete più veloce e affidabile. Quando, ad esempio, lo smartphone naviga a singhiozzo il 20% di loro ammette di andare su tutte le furie, mentre quando il telefono non aggancia proprio la rete dati, è il 17% ad andare nel panico.

Il 53% cambia operatore nell’arco di 24 mesi

Tanti giovani cedono quindi alle lusinghe dei gestori telefonici, che a suon di rilanci tentano di attrarre nuovi clienti. Fissando un intervallo temporale di 24 mesi il 53% degli intervistati dichiara di aver cambiato operatore. In dettaglio, il 33% una sola volta, il 12% due, l’8% tre o più, mentre solamente il 47% è rimasto fedele al vecchio gestore. Sono pochi (21%), invece, i pentiti che dopo un po’ ci ripensano e tornano all’operatore di partenza, riferisce Italpress. Il motivo principale è la quantità maggiore di Giga di navigazione, o minuti di conversazione (49%). Ma c’è anche chi si lascia convincere soprattutto dal prezzo inferiore dell’offerta (30%) o dalla copertura migliore della Rete (21%).

Come vengono consumati i Giga?

Quasi 2 ragazzi su 3 (63%) hanno a disposizione più di dieci Gigabyte, il 20% più di trenta, il 18% tra 20 e 30, il 15% tra 10 e 20, e il 10% sostiene di averli illimitati. Ciò non è sufficiente a evitare che il 7% li finisca nei primi giorni successivi al rinnovo dell’offerta. Ma come vengono consumati tutti questi Giga? Circa 1 su 4 indica i social network (24%), soprattutto Instagram (62%). Subito dietro i social ci sono le chat (20%), con WhatsApp scelta come app di riferimento dai tre quarti del campione (76%). Terzo gradino del podio, le app di musica (19%), che però sono un terreno impervio. A 1 ragazzo su 10 prosciugano quasi tutti i Giga, al 7% più della metà, e al 18% quasi la metà. Il 37%, forse per paura, le usa pochissimo, e il 28% evita di usarle.

Case vacanza, un business da oltre 105 milioni di euro

Per il comparto delle case vacanza il 2018 si è chiuso con un bilancio positivo: durante l’anno scorso il giro di affari degli affitti brevi è stato di oltre 105 milioni di euro, +5% rispetto al 2017. Secondo sito di settore CaseVacanza.it si tratta di un risultato soddisfacente, che si inserisce all’interno di un quadro di stabilizzazione tra domanda e offerta. Dopo le crescite a doppia cifra degli anni scorsi ora domanda e offerta si attestano infatti su un aumento rispettivamente dell’1% e del 2%.

“Ora che domanda e offerta si sono normalizzate la vera sfida si gioca sulla qualità degli alloggi e la loro promozione online”, commenta Francesco Lorenzani, amministratore delegato di Feries, società che fa capo a CaseVacanza.it.

Prezzo medio stabile a 890 euro per 8 giorni

“Gli ultimi 5 anni hanno segnato la fortuna delle case vacanza che sempre di più si sono affermate da un lato come scelta preferenziale di tanti viaggiatori italiani e stranieri, e dall’altra un’occasione di business per moltissimi proprietari del Bel Paese”, aggiunge Lorenzani.

Secondo gli analisti del sito il prezzo medio dei soggiorni della durata di circa 8 giorni in una casa vacanze per quattro persone resta stabile a 890 euro. E per questa formula non si arresta il gradimento degli stranieri. “Basti pensare che in appena un anno la percentuale di visitatori stranieri che hanno prenotato in case vacanza del nostro Paese risulta in crescita del 30%” afferma il manager.

Il 30% del mercato è composto da proprietari under 30

Sale inoltre il numero di quote rosa che si occupano del business degli affitti brevi, con un 47% che quasi pareggia la percentuale dei proprietari di sesso maschile. Inoltre, il settore delle case vacanza rimane un ambito molto gradito dalle giovani generazioni: se l’età media dei gestori è di appena 42 anni il 30% è infatti composto da proprietari under 30. Anche nel 2018 poi la maggior parte dei proprietari ha preferito gestire da sé la propria casa vacanza, e solo il 10% delle strutture viene amministrato dalle agenzie.

Puglia, Toscana e Sicilia le regioni più richieste

Sul piano dell’offerta sono la Sicilia, la Puglia e la Toscana le regioni che catalizzano la maggior parte delle case vacanza, e che insieme ospitano il 47% degli annunci sul portale. Le province che offrono un maggior numero di proposte sono Lecce e Trapani, ma anche Roma, che scalza Grosseto rispetto alla classifica del 2017. Per quanto riguarda le regioni con maggiore richiesta da parte dei viaggiatori, riporta Adnkronos, Puglia, Toscana e Sicilia restano nella top 3, con la Puglia che in questo caso conquista la prima posizione nei desiderata dei viaggiatori. Mentre Lecce, Livorno e Olbia-Tempio sono le province con più domanda sul portale.

Rivoluzione Facebook: “integrerà Instagram, WhatsApp e Messenger”

Sarà davvero così? I rumors si sprecano, dopo l’articolo del New York Times che ha affermato che Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Facebook, vorrebbe integrare i servizi dei social network – WhatsApp, Instagram e Facebook Messenger. I tre i servizi di messaggistica continueranno a funzionare separatamente, ma la loro infrastruttura di messaggistica sottostante sarà unificata. Lo avrebbero rivelato al quotidiano Usa quattro persone coinvolte nel progetto. Facebook è ancora nelle prime fasi del lavoro e prevede di completarlo entro la fine di quest’anno o all’inizio del 2020, spiega ancora il quotidiano. Questa operazione, se si farà, riunirà tre delle più grandi reti di messaggistica del mondo, che complessivamente contano più di 2,6 miliardi di utenti.

Operatività entro il 2020?

A quanto scrive il New York Times, il progetto – che è ancora nelle fasi iniziali, con l’obiettivo di concludersi entro la fine di quest’anno o all’inizio del 2020 – richiede a migliaia di dipendenti di Facebook di riconfigurare il funzionamento di WhatsApp, Instagram e Facebook Messenger fin dai livelli più elementari. Ovviamente, si sono subito alzate polemiche e paure in merito a diverse questioni, dall’Antitrust alla privacy fino alla sicurezza dei dati degli utenti: sostanzialmente, Facebook avrebbe accesso a un’infinità di informazioni, con una posizione decisamente dominante.

Le rassicurazioni di Facebook

Stando a quanto hanno riportato al quotidiano americanoi quattro informatori, che vogliono mantenere il loro anonimato, Zuckerberg avrebbe anche ordinato a tutte le applicazioni di incorporare la crittografia end-to-end, che protegge i messaggi da occhi indiscreti tranne i partecipanti alla conversazione. Dopo l’entrata in vigore delle modifiche, un utente di Facebook potrebbe inviare un messaggio crittografato a qualcuno che ha solo un account WhatsApp, per esempio. Attualmente, questo non è ancora possibile perché le applicazioni sono separate.

Commentando le indiscrezioni di stampa, un portavoce di Facebook ha spiegato, come ha ribattuto l’Ansa: “Vogliamo costruire le migliori esperienze di messaggistica possibili; la gente vuole scambiarsi messaggi in modo veloce, semplice, affidabile e privato”. “Stiamo lavorando – ha aggiunto – per portare la crittografia end-to-end ad altri nostri servizi di messaggistica e stiamo valutando come rendere più facile raggiungere amici e familiari attraverso i diversi network”. “Chiaramente, in una fase come questa in cui stiamo iniziando a definire tutti i dettagli per capire come rendere tutto questo possibile, sono ancora molte le discussioni e i confronti in atto” ha concluso il portavoce di Facebook.

Criptovalute: cosa succederà nel 2019?

Quali sono stati i momenti chiave del 2018 e quali potranno essere i trend del 2019 nell’ancora nebuloso mercato delle criptovalute? Per fare un po’ di luce su questo mondo, gli esperti di Kaspersky Lab hanno tracciato alcune previsioni proprio per questo ambito.

La parola chiave sembra essere ridimensionamento

Nel 2018 il settore delle criptovalute ha interessato molte persone, compresi i cybercriminali, ma nella seconda parte dell’anno si è assistito ad un ridimensionamento dell’attività delle crypto-community e dei trader e, di conseguenza, dell’azione di risposta dei criminali informatici. Per l’anno nuovo, si prevede il ridimensionamento delle grandi aspettative sull’uso della blockchain in campi diversi da quelli delle criptovalute, il declino dei pagamenti in moneta digitale e l’assestamento dei tassi di cambio, dopo i valori stratosferici registrati nel 2017. Nella seconda metà del 2018, il mondo contraddistinto da blockchain e monete digitali ha affrontato grandi cambiamenti, primo fra tutti, la discesa dei prezzi delle criptovalute. Questo ha determinato un calo dell’interesse delle persone, dell’attività delle crypto-community e dei trader e, di conseguenza, nella risposta dei criminali informatici al fenomeno. Nel 2018 è diminuita l’azione degli encryptor ed è cresciuto il fenomeno del mining malevolo per la creazione di criptovalute. È stato appurato che, per i cyberciminali, è più sicuro fare mining in modo discreto su dispositivi infetti piuttosto che chiedere un riscatto tramite un ransomware, attirando così l’attenzione. L’impiego del crypto-mining malevolo ha continuato a crescere nel primo trimestre del 2018, con un picco a marzo, ma nei mesi successivi c’è stata un’involuzione, determinata anche dalla discesa dei tassi di cambio delle monete digitali.

Le previsioni per il mondo delle criptovalute

Lo studio stima tre grandi cambiamenti in questo settore. In primis, il ridimensionamento delle aspettative riguardo l’uso della blockchain in campi diversi da quelli delle criptovalute. Questo trend sarà determinato non tanto dalle evoluzioni tecnologiche, ma dalla consapevolezza delle persone e delle aziende di quanto possa essere effettivamente ristretto il raggio d’azione della blockchain e il suo possibile impiego. Un uso efficiente della blockchain, in ambiti diversi da quelli che riguardano le valute digitali, è stato già esplorato e sperimentato negli ultimi anni, con pochi risultati comprovati. In seconda battuta, ci sarà una diminuzione dei pagamenti in valute digitali, a causa soprattutto delle alte commissioni , dei trasferimenti lenti, del prezzo alto per quanto riguarda l’integrazione e, cosa ancora più importante, dello scarso numero di clienti. Infine, il report di Kaspersky Lab ritiene impossibile tornare ai tassi di cambio stratosferici registrati nel 2017.

Moda, a Milano il settore del fashion è maschio

In Lombardia il 62% delle imprese del settore moda è guidata da uomini, evidenziando quanto il design sia ancora un settore maschile. La concentrazione maggiore di imprese capitanate da signori uomini, con tre attività su quattro, si registra soprattutto a Cremona, Pavia, Varese e Como.

I numeri della moda

In occasione di Milano Moda Uomo, la kermesse di riferimento del settore, è stato fatto il punto su quanto  pesi la moda al maschile nelle imprese. Su 34 mila in Lombardia tra produzione, commercio e design oltre, 21 mila sono guidate da uomini, il 62% del totale, soprattutto nell’attività di design, tre su quattro (75%), e nella produzione, quasi due su tre (63,4%). Superano la media regionale Milano (66%), Varese e Como (65%). Nel design superano l’80% a Cremona e Pavia e nella produzione arrivano al 70% a Varese e Como.

Presenza femminile più forte nel commercio

Le cose cambiano un po’ nel settore commercio, dove si fa più forte la presenza femminile: in questo ambito le donne rappresentano il 43% e gli uomini il 57%, ma non a Milano dove le imprese al maschile sono comunque quasi due su tre (64%). Milano è in cima alla lista per numero complessivo di imprese, ben 13 mila, seguita da Brescia con quasi 4 mila, Bergamo e Varese con oltre 3 mila. Superano le 2 mila anche Como e Monza e Brianza. I dati sono il frutto di un’elaborazione della Camera di commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi su dati del registro delle imprese al terzo trimestre 2017 e 2016.

Moda italiana, quanto “pesa”?

Complessivamente, nel nostro Paese le imprese della moda sono ben 224 mila. Di queste, 34 mila sono in Lombardia, prima regione per il settore, seguita da Campania con 32 mila e Toscana con 28 mila. Tra le province domina Napoli con quasi 21 mila imprese, seguita da Roma con 15 mila e Milano con 13. Vengono poi Firenze, Prato, Bari e Torino. Dal canto suo, Milano eccelle nel design con quasi 2 mila attività specializzate. A livello nazionale, si conferma la predominanza di uomini al comando delle aziende del settore moda: il 58%.

Numeri d’oro per l’export lombardo

L’export lombardo di moda nel mondo vale 9,6 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2017, +4,3% rispetto all’anno precedente. Con quasi 5 miliardi di valore solo nei primi nove mesi (+9% sul 2016), Milano resta leader in Lombardia e in Italia per export. In Lombardia seguono poi Como con 1,1 miliardi, Bergamo con quasi 765 milioni (+6%), Varese con 683 milioni (+2,1%) e Mantova con 633 milioni. In crescita anche Brescia (+2,4%) e Cremona (+5,4%). Stabili Monza Brianza e Lodi. Francia, Stati Uniti e Hong Kong si confermano i principali mercati clienti per l’export lombardo.