Troppo tempo sui dispositivi: i ragazzi soffrono di disturbi del sonno

La pandemia, con i Lockdown e l’uso della Dad, ha aumentato drasticamente l’esposizione ai dispositivi elettronici nei minori, comportando un forte incremento dei disturbi del sonno.
“Rispetto al periodo pre-pandemia l’aumento del tempo trascorso davanti a uno schermo ha riguardato complessivamente il 68,7% dei bambini e dei ragazzi. Nello specifico, il tempo di esposizione è più che triplicato per motivi scolastici, da poco meno di un’ora al giorno a tre ore e mezza, e ha riguardato il 72% di bambini e ragazzi. Mentre per uso ricreativo l’uso è quasi raddoppiato, da un’ora e tre quarti a tre ore, e ha riguardato il 49,7% dei soggetti”.
È quanto si legge in uno studio condotto dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù insieme all’Università Sapienza e a quella di Tor Vergata di Roma. 

Più di due ore davanti allo schermo nelle ore serali

“Considerando solo le ore serali, dopo le 18, l’aumento del tempo di esposizione ai dispositivi è stato osservato nel 30% del campione, pari a 325 bambini – si legge nella ricerca -. Si è passati da appena il 13,7% di bambini e ragazzi che trascorrevano più di due ore davanti agli schermi prima del Covid al 29,1%, più del doppio. Un dato particolarmente significativo, visto che i fattori maggiormente associati al rischio di insorgenza di disturbo del sonno sono proprio quelli relativi al tempo passato davanti a uno schermo nelle ore serali”.

Aumenta del 50% la quota di bambini che dorme male

Per valutare la presenza o meno dei disturbi del sonno, è stato utilizzato lo Sleep Disturbance Scale for Children, un apposito questionario per valutare le abitudini riguardanti il sonno nei bambini e negli adolescenti. Le domande comprendono la durata del sonno, le difficoltà nell’addormentarsi e nello svegliarsi, il numero di volte in cui ci si sveglia durante la notte e lo stato di agitazione durante il sonno. Lo studio ha dimostrato un aumento di oltre il 50% dei disturbi del sonno rispetto al periodo pre-pandemia. Nel dettaglio, riporta Adnkronos, si è passati da 240 bambini e adolescenti che mostravano già disturbi del sonno prima dell’inizio della pandemia, ai 367 durante la pandemia, il 33,9% di tutto il campione, praticamente un minore su tre.

“L’importanza delle raccomandazioni di igiene del sonno”

“Lo stile di vita dei bambini e di ragazzi è cambiato profondamente. Ormai i dispositivi elettronici fanno parte della loro vita, sia scolastica sia sociale, e questo persiste anche ora che siamo molto lontani dalle chiusure pandemiche. Tutto questo non fa che sottolineare l’importanza delle raccomandazioni di igiene del sonno – commenta Romina Moavero, neurologa dello sviluppo all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e coautrice dello studio – per promuovere comportamenti adeguati a favorire il buon sonno in infanzia e in adolescenza. Soprattutto perché il sonno in questa fascia di età è cruciale per migliorare apprendimenti, abilità cognitive, scolastiche e anche sociali”.

Cybersecurity: i punti deboli del settore Healthcare

I criminali informatici interessati al settore Healthcare hanno a disposizione numerose modalità per infiltrarsi nelle reti e provocare il caos. Canalys ha identificato sette punti critici che possono consentire agli hacker di sottrarre i dati dei pazienti, ed esporre le organizzazioni a frodi e sanzioni.
La scarsità di fondi è una delle principali cause della debolezza delle difese informatiche. Rispetto ad altri settori, la spesa in tecnologia delle strutture sanitarie è molto ridotta. Più della metà investe meno del 10% del proprio budget in tecnologia. Ma un budget limitato significa spesso meno personale dedicato a controllo, prevenzione e ripristino dopo una violazione. Oggi i provider di servizi sanitari delegano queste responsabilità a professionisti IT, più qualificati per gestire le difese necessarie a garantire la privacy dei dati dei pazienti e la conformità agli standard normativi.

I rischi dovuti ai sistemi legacy

I sistemi obsoleti possono essere troppo costosi da aggiornare. Canalys indica quindi tre azioni che gli MSP possono mettere in atto immediatamente per evitare i potenziali rischi dovuti ai sistemi legacy.
La prima è ridurre il numero di versioni e fornitori dei prodotti software, la seconda è segmentare le reti, ad esempio, rimuovendo da Internet le attrezzature critiche vitali e dispositivi simili per isolare un attacco o un incidente, e la terza è creare un diagramma di flusso con le specifiche responsabilità per il Centro operativo di sicurezza (SOC).

Internet of Medical Things e architettura di sicurezza frammentaria

Uno dei principali punti di vulnerabilità è costituito dai dispositivi connessi alle piattaforme cloud sui quali vengono archiviati e analizzati i dati dei pazienti. Uno studio IBM individua in media tra i 10-15 dispositivi connessi per ogni letto di degenza. I dispositivi medici compromessi possono mettere in pericolo la sicurezza e la privacy del paziente, oltre a esporre interi segmenti di utenti che utilizzano questi servizi. I fornitori di servizi sanitari si affidano in genere a diverse soluzioni di sicurezza dedicate e specifiche. Spesso questi sistemi disparati impediscono agli MSP di identificare potenziali cause di attacco e risolvere le vulnerabilità prima che i criminali informatici accedano a dati sensibili o distribuiscano ransomware.

Scam di phishing e ransomware

Gli utenti sono uno dei punti deboli più sfruttati dai criminali informatici. La scarsa consapevolezza del personale sui rischi associati a e-mail e siti web può essere devastante per i professionisti della sanità. Il Dipartimento statunitense per la salute e i servizi sociali (HHS) sta attualmente indagando su centinaia di casi associati al phishing e all’intrusione nei sistemi. Gli istituti ospedalieri sono obiettivi molto appetibili per gli attacchi di ransomware, perché è altamente probabile che gli amministratori paghino il riscatto richiesto. Spesso i fornitori di servizi sanitari cedono con facilità alle richieste di riscatto, per evitare potenziali conseguenze sulle vite dei pazienti nel caso in cui non sia loro possibile accedere alle proprie cartelle, o agli strumenti medicali connessi a Internet.

Bonus famiglia: tutte le agevolazioni per il 2023

Con il termine ‘bonus famiglia 2023’ si intendono tutte le agevolazioni legate alla conciliazione vita-lavoro, ai sostegni economici alla genitorialità e alle agevolazioni rivolte ai nuclei familiari. La Legge di Bilancio 2023 ha introdotto infatti una serie di misure dedicate alle famiglie in aggiunta a quelle già in vigore o ai sussidi riconfermati con modifiche. Alcuni Bonus sono nuovi, altri, come l’Assegno Moglie a Carico, il Bonus Asilo Nido, e l’Assegno Unico Figlio, sono una conferma di quelli già presenti lo scorso anno. E con i nuovi Servizi Proattivi di Inps si viene contattati direttamente via email quando sono in arrivo nuovi Bonus in linea con il proprio ISEE.

Aiuti per acquisti, bollette e spese veterinarie

La Carta Acquisti, detta anche Carta Risparmio Spesa, aiuta le famiglie in difficoltà economica a fare la spesa nei supermercati aderenti al programma, e consiste in una carta prepagata utilizzabile presso i supermercati convenzionati.  Il Bonus 200 euro è invece un contributo economico destinato a lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati e disoccupati con reddito non superiore a 40.000 euro annui lordi, mentre per accedere al Bonus Bollette è richiesto un ISEE massimo di 15mila euro, o non superiore a 20.000 euro se il nucleo ha almeno 4 figli a carico o se titolare di Reddito di Cittadinanza o Pensione di Cittadinanza. Le spese veterinarie detraibili sono invece un’agevolazione fiscale per le famiglie che hanno sostenuto spese per il veterinario o l’acquisto di farmaci per animali domestici.

Sostegno per trasporti, patente ma anche psicologo e vacanze

Oltre ai Bonus già citati, il Governo prevede altre misure di sostegno, come il Bonus Trasporti, che prevede un rimborso del 30% della spesa sostenuta per l’acquisto di abbonamenti annui o stagionali dei servizi di trasporto pubblico locale, o il Bonus Patente, rivolto ai giovani autisti per l’autotrasporto, gestita dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ma c’è anche il Bonus Psicologo, destinato a chi vive una condizione di ansia, stress, depressione e fragilità psicologica a causa della pandemia e ha un ISEE non superiore a 50.000 euro, o il Bonus Vacanze, una misura che consente a pensionati e famiglie con disabili di ottenere un contributo economico per soggiorni in Italia effettuati tra il 1° luglio 2023 e il 31 ottobre 2023. 

Le misure per la casa

Oltre alle misure più dirette al sostegno economico, il Governo riconferma o introduce anche vari bonus dedicati alla casa. In particolare, il Bonus Ristrutturazioni, prorogato e ampliato, che permette ai contribuenti di detrarre il 50% delle spese sostenute per lavori di ristrutturazione, il Bonus Tende da Sole, introdotto nel 2023 per l’installazione di dispositivi fotoprotettivi, il Bonus Condizionatori, che rientra nel pacchetto di incentivi per la riqualificazione energetica degli edifici, il Bonus Verde, un’agevolazione fiscale disponibile per chi desidera migliorare il proprio giardino o balcone, e il Bonus Mobili, una detrazione per gli acquisti di mobili o grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+.

Quando bisogna cambiare i pneumatici invernali?

Il cambio stagionale dei pneumatici è importante per mantenere l’efficienza del veicolo e la sicurezza dei passeggeri. In Italia, la legge stabilisce che a partire dal 15 maggio debbano essere montati pneumatici estivi. Ma quali sono i vantaggi di sostituire i pneumatici? Cosa succede se si tendono i pneumatici invernali per più tempo del dovuto?

La normativa sul cambio pneumatici in Italia

Per tutti gli automobilisti in Italia, il cambio pneumatici è regolamentato dalla normativa UNI 11313. Secondo questa normativa, i pneumatici estivi devono essere montati a partire dal 15 maggio e possono rimanere sulla vettura fino al 15 ottobre. Durante i periodi più freddi, invece bisogna montare i pneumatici invernali. In caso di neve o di terreno gelato, è consigliabile che si montino gomme da neve sul proprio veicolo al fine di garantire una guida sicura ed efficiente. La principale differenza tra i pneumatici estivi e e quelli invernali sta nelle loro diversificate capacità di aderenza alle strade in condizioni meteorologiche diverse. Ciò significa che se si tengono le gomme estive a temperature troppo basse, non solo si corrono rischi per la propria sicurezza ma si compromette anche la durata degli pneumatici stessi.

Fino a quando è possibile tenere le gomme invernali?

Secondo il Codice della Strada, i pneumatici invernali devono essere sostituiti con i pneumatici estivi entro il 15 maggio. Tuttavia, ci sono delle eccezioni che consentono di mantenere gli pneumatici invernali fino al 15 novembre. Gli pneumatici invernali possono essere tenuti fino al 15 novembre se le temperature della strada non superano i 7°C e se non c’è pioggia. In caso contrario, è necessario sostituire gli pneumatici invernali con quelli estivi entro il 15 maggio. Sebbene le temperature possano variare da regione a regione, è fondamentale monitorare regolarmente la temperatura stradale, in modo da determinare quando sostituire gli pneumatici.

Le sanzioni sono salate

Le sanzioni in caso di mancato rispetto di questa norma sono salate. Se non si hanno montati gli pneumatici estivi, la multa può andare da un minimo di 422 euro fino a un massimo di 1.682 euro. Ed è previsto anche il ritiro del libretto di circolazione. Insomma, conviene ricordarsi di effettuare il cambio entro il 15 maggio: la sicurezza (e pure il portafoglio) ringraziano!

L’AI aumenterà il PIL globale annuo del 7%

Negli Stati Uniti e in Europa circa due terzi dei lavori attuali sono esposti a un certo grado di automazione dell’AI, mentre l’AI generativa potrebbe sostituire fino a un quarto dei lavori attuali. In pratica, a livello globale, l’AI generativa potrebbe esporre all’automazione l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Secondo il report The Potentially Large Effects of Artificial Intelligence on Economic Growth, realizzato dalla banca d’affari Goldman Sachs, nel prossimo decennio l’AI generativa negli USA potrebbe aumentare la crescita della produttività del lavoro di quasi punto percentuale e mezzo l’anno, e potrebbe aumentare il PIL globale annuo del 7%, pari a un aumento di quasi 7.000 miliardi di dollari.

La perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione verrà compensata

Tutto questo sarà possibile se agli annunci entusiasti, il moltiplicarsi di servizi che promettono di cambiare il modo di lavorare, l’improvviso interesse del grande pubblico e lo storytelling del marketing corrisponderanno l’effettiva capacità dell’AI di svolgere in maniera efficiente i molti compiti che si candida a rivoluzionare. Più in generale, a livello globale il 18% del lavoro potrebbe essere automatizzato dall’AI, con effetti maggiori nei mercati sviluppati. Ma secondo i ricercatori di Goldman Sachs, “la perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione è stata storicamente compensata dalla creazione di nuovi posti di lavoro”. L’emergere di nuovi mestieri a seguito di innovazioni tecnologiche nella maggioranza dei casi è stata infatti la principale spinta per la crescita occupazionale.

L’esposizione all’automazione delle professioni 

L’esposizione all’automazione è l’indice che valuta quante delle molteplici mansioni riconducibili a una singola professione possono essere svolte dall’AI. Lo studio evidenzia settori dove il ruolo dell’Intelligenza artificiale resterà per ora marginale (come Pulizia e manutenzione, Installazione, manutenzione e riparazione o Costruzioni edili), quelli in cui  svolgerà un ruolo complementare svolgendo parte dei compiti e liberando tempo che la forza lavoro potrà dedicare all’aumento della produttività e quelli nei quali i lavoratori sono più a rischio di essere sostituiti dall’AI. Questi ultimi includono le professioni legali e quelle che ricadono nella categoria Supporto amministrativo e d’ufficio.

Aumenta le chance di un boom della produttività

Insomma, se è vero che l’innovazione tecnologica storicamente porta all’eliminazione di posti di lavoro, è altrettanto vero che spinge alla creazione di nuovi. La questione, riporta Ansa, è come assicurarsi che chi oggi perde il lavoro perché le sue mansioni ora possono essere svolte dall’AI abbia la possibilità di aggiornare e integrare le proprie competenze, per avere domani ancora un posto e un ruolo nel nuovo contesto lavorativo.
“La combinazione di significativi risparmi sul costo del lavoro, la creazione di nuovi posti di lavoro e l’aumento della produttività per i lavoratori che non vengono sostituiti – si legge nel report – aumenta le chance di un boom della produttività, che spingerebbe la crescita economica in modo sostanziale, anche se i tempi di tale boom sono difficili da prevedere”,.

Bando di auto a benzina e diesel, cosa farebbero gli italiani?

Ha destato molto scalpore l’ipotesi avanzata dal Parlamento europeo di vietare la vendita di auto a benzina e diesel a partire dal 2035. La norma è al momento in stand-by fino a data da destinarsi, ma come si comporterebbero gli automobilisti italiani se la misura diventasse realtà? E’ cosa nota che i nostri connazionali siano “fan” dell’auto privata, e decidere di usare mezzi alternativi o nuove forme di mobilità potrebbe non essere una scelta così semplice. Secondo un’indagine commissionata da Facile.it agli istituti mUp Research e Norstat, quasi 17 milioni di italiani (38,7%) opterebbero per un veicolo ibrido, mentre il 17,9% (oltre 7,5 milioni di rispondenti) sceglierebbe un’auto completamente elettrica. La percentuale di chi preferisce l’elettrico sale addirittura al 43% tra i rispondenti del Centro Italia e al 19,8% al Nord Est. 

Le giovani generazioni le più propense ai mezzi ibridi

Le generazioni più giovani sono le più propense all’acquisto di veicoli a combustibili alternativi, con il 43,6% degli italiani tra i 25 e i 34 anni che sceglierebbe un veicolo ibrido e il 26,6% degli 18-24enni che opterebbe per un’auto completamente elettrica, il tutto chiaramente senza contare i costi del veicolo.
In caso di acquisto anche prima del 2035, il 9,9% degli italiani non comprerebbe più un’auto ma opterebbe per mezzi alternativi, mentre quasi 4 milioni di persone si indirizzerebbero al noleggio a lungo termine. 

L’elettrica potrebbe diventare la prima scelta

Per quanto riguarda gli acquisti successivi al 2035, quando non sarà più possibile scegliere i motori a diesel o benzina, più di un terzo degli italiani (quasi 15 milioni) comprerebbe un’auto elettrica, in particolare tra gli 18-24enni (46,8%). Più di 4 milioni di persone (9,7%) opterebbero per l’uso esclusivo di auto a noleggio a lungo termine, mentre il 7% sceglierebbe i mezzi pubblici. Circa 13,5 milioni di italiani non hanno ancora le idee chiare su come si comporteranno in caso di acquisto dopo il 2035.

Contano anche le politiche governative e le infrastrutture

L’indagine di Facile.it conferma quindi che i nostri connazionali sono ben disposti nei confronti dell’innovazione tecnologica nel settore dell’automobile, con un’ampia percentuale di cittadini favorevoli all’acquisto di veicoli ad alimentazione alternativa. In questo percorso, però, è fondamentale chele politiche pubbliche siano in grado di supportare il cambiamento, ad esempio con incentivi per l’acquisto di auto elettriche e la creazione di infrastrutture di ricarica adeguate in tutto il paese.

Il 30% dei lavoratori italiani vuole la “settimana corta” 

Una settimana lavorativa di quattro giorni? Quasi un terzo dei lavoratori italiani sarebbe favorevole, proprio come i loro colleghi inglesi. Anche i lavoratori italiani sarebbero infatti interessati a sperimentare nuove forme di flessibilità oraria sul posto di lavoro. Secondo il Randstad Workmonitor, l’indagine realizzata in 34 Paesi su 35mila lavoratori dipendenti, di cui 1.000 in Italia, il 29% dei dipendenti italiani preferirebbe la settimana corta, mentre il 9% vorrebbe lavorare in orari tradizionali, ma in giorni diversi della normale settimana lavorativa. Il 14%, poi, vorrebbe poter lavorare su turni divisi, alla mattina presto e alla sera tardi, e il 6% vorrebbe lavorare di notte. Solo meno di un lavoratore italiano su due (43%) preferisce l’opzione di giorni e orari tradizionali.

Giovani e operai preferiscono l’opzione tradizionale

Sull’ipotesi della settimana corta età diverse dimostrano sensibilità differenti. A preferirla sono soprattutto le persone tra 35 e 44 anni, il 32% del totale, percentuale che scende al 31% tra i 55 e i 67 anni, al 30% tra i 25 e i 34 anni e al 28% tra i lavoratori di età compresa tra i 45 e i 54 anni. La percentuale più bassa si riscontra tra i giovani compresi tra i 18 e i 24 anni, che vorrebbero lavorare 4 giorni solo nel 16% dei casi. A prediligere la settimana corta sono più gli impiegati, favorevoli nel 32% dei casi, degli operai (15%).

La flessibilità di orario è comunque un criterio rilevante

Di certo, la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani, l’83%, considera rilevante la flessibilità di orario. Una flessibilità che, in realtà, in grande parte è già sperimentata: il 27% negli ultimi 12 mesi ha visto introdurre dal proprio datore di lavoro forme di flessibilità, potendo stabilire autonomamente il proprio orario professionale.  Inoltre, riporta Adnkronos, per il 35% dei lavoratori italiani un motivo valido per non accettare un’offerta di lavoro riguarda la mancanza di flessibilità oraria e il fatto che non permetta di stabilire il proprio orario di lavoro.

Un tema che divide

“I risultati delle prime sperimentazioni di una settimana lavorativa di 4 giorni – commenta Valentina Sangiorgi, chief hr officer di Randstad – sono interessanti, ma è difficile immaginare oggi i possibili effetti dell’introduzione su larga scala. Di certo, il Workmonitor rivela che molti italiani sono favorevoli alla possibilità della settimana corta, ma anche che il tema è divisivo, perché le preferenze di orario sono le più diverse. In generale, una nuova modulazione dell’orario di lavoro può produrre benefici per lavoratori e aziende, ma deve tenere in considerazione le esigenze di tutti: di chi ricerca un giorno libero in più, come di chi necessiterebbe piuttosto di una giornata corta, ad esempio, per impegni familiari. Al di là delle mode, è importante compiere scelte organizzative in grado di soddisfare i bisogni delle persone”.

Quarto trimestre 2022: i dati dell’industria lombarda

A quanto emerge dalle elaborazioni del Servizio Studi Statistica e Programmazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, i dati congiunturali dell’industria lombarda relativi al quarto trimestre 2022 sono positivi, ma si rileva un calo nel portafoglio ordini, interni ed esteri.
L’analisi tendenziale relativa al quarto trimestre 2022 dell’area metropolitana di Milano ha evidenziato una crescita per la produzione del +4,2% in un anno, più del dato lombardo (+2,7%). Se si considera la crescita netta del fatturato, l’aumento è +9,3% a livello locale e +9,2% a livello regionale.
In relazione al portafoglio ordini, si registra un livello superiore a quello relativo al quarto trimestre 2021 (+3,4%), con performance migliore rispetto alla manifattura lombarda (+2,7%).

Milano: produzione +1% e fatturato +1,6% congiunturale

I mercati esteri milanesi hanno ripreso la crescita in modo più incisivo (+7,1%) rispetto alla componente interna (+1,2%). Il quadro delinea nel quarto trimestre 2022 un aumento congiunturale rispetto al terzo trimestre 2022 della produzione industriale e del fatturato milanese (+1% e +1,6% destagionalizzato). La crescita rispetto al dato lombardo è maggiore per la produzione (+0,8% Lombardia) e leggermente minore per il fatturato locale (+1,7% Lombardia, destagionalizzato).
Per gli ordini interni il dato congiunturale è in calo in modo più marcato per l’industria milanese rispetto alla manifattura lombarda (rispettivamente -1,7% e -0,2% destagionalizzato), allo stesso modo degli ordini esteri per cui la performance milanese è in calo (-1% rispetto al +0,3% lombardo destagionalizzato).

Monza e Brianza: ordini +7,5% tendenziale

A Monza e Brianza la crescita tendenziale della capacità produttiva colloca i volumi prodotti a un livello superiore rispetto al quarto trimestre 2021 (+2,8%), superiore rispetto al dato lombardo (+2,7%). Nello stesso periodo, i dati della manifattura brianzola per fatturato (+7,1%) sono inferiori al dato lombardo (+9,2%). Sempre rispetto al quarto trimestre 2021, il portafoglio ordini del manifatturiero brianzolo evidenzia un incremento reale superiore a quanto registrato in Lombardia (rispettivamente +7,5% e +2,7%). Prosegue poi la crescita congiunturale: il quarto trimestre 2022 fa registrare un aumento rispetto al terzo trimestre 2022 sia della produzione industriale (+0,3% destagionalizzato), sia del fatturato (+0,8% destagionalizzato), così come le commesse acquisite dai mercati interni (+2,3% destagionalizzato) ma sono in calo quelli esteri (-1,1%).

Lodi: produzione -0,2% destagionalizzato

Nel quarto trimestre 2022 rispetto all’anno precedente, si verifica un trend di crescita per produzione, fatturato e ordini di Lodi. Relativamente all’analisi tendenziale la crescita della produzione si attesta a +0,3%, performance peggiore rispetto al dato lombardo (+2,7%). In relazione al fatturato, nel confronto con il quarto trimestre 2021, il recupero si attesta a +6,4%, inferiore per intensità al dato regionale (+9,2%). Ma gli ordini crescono in un anno del 3,1% rispetto al 2,7% lombardo. In leggero calo il trend congiunturale della produzione industriale, con una leggera diminuzione rispetto al terzo trimestre 2022 (-0,2% destagionalizzato), accompagnato dalla crescita del fatturato (+0,3% destagionalizzato) e dalle commesse acquisite dai mercati interni (+0,5% destagionalizzato), mentre gli ordini esteri risultano in crescita di +0,1%.

Osservatorio sul precariato: la dinamica dei flussi nel 2022

Da gennaio a novembre 2022 le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati sono state 7.562.000, +13% rispetto allo stesso periodo del 2021. Secondo i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, significativo risulta l’aumento delle diverse tipologie di contratti a termine, con 660.000 assunzioni per gli intermittenti (+18%), 331.000 per l’apprendistato (+13%), 3.320.000 per il tempo determinato (+12%), 945.000 per gli stagionali (+11%) e 1.003.000 per i somministrati (+6%). Le trasformazioni da tempo determinato nei primi undici mesi del 2022 sono risultate 687.000, evidenziando un fortissimo incremento rispetto allo stesso periodo del 2021 (+52%). Nello stesso periodo le conferme di rapporti di apprendistato (106.000) giunti alla conclusione del periodo formativo segnano un incremento del 5% rispetto all’anno precedente.

Un saldo annualizzato pari a 432.000 posizioni di lavoro

A novembre 2022 il saldo annualizzato risulta pari a 432.000 posizioni di lavoro. Il contributo a tale crescita è positivo per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (+336.000), contratti a tempo determinato (+39.000), intermittenti (+38.000), di apprendistato (+18.000), e stagionali (+2.000). Negativo invece il contributo dei contratti somministrati (-1.000). Rispetto a ottobre segnano un incremento del saldo i contratti a tempo indeterminato e gli apprendisti, in flessione tutti gli altri.

Lavoro occasionale: -6% in un anno

Nel corso dei primi undici mesi del 2022, rispetto al corrispondente periodo del 2021, le assunzioni in somministrazione sono aumentate per entrambe le tipologie contrattuali, in particolare sono state registrate 46.000 assunzioni a tempo indeterminato (+65%) e 958.000 a termine (+4%). La consistenza dei lavoratori impiegati con contratti di Prestazione Occasionale (CPO) a novembre 2022 si attesta intorno alle 13.000 unità, -6% rispetto a novembre 2021. L’importo medio mensile lordo della remunerazione risulta pari a 239 euro. I lavoratori pagati con i titoli del Libretto Famiglia (LF), a novembre 2022 risultano circa 12.000, -8% rispetto a novembre 2021, mentre l’importo medio mensile lordo della loro remunerazione risulta pari a 172 euro.

Cessazioni: 6.824.000, +19%  

Le cessazioni fino a novembre 2022 sono state 6.824.000, +19% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente per tutte le tipologie contrattuali. In particolare, 582.000 cessazioni di contratti intermittenti (+33%), 2.478.000 di contratti a tempo determinato (+21%), 951.000 di contratti stagionali (+19%), 204.000 di contratti in apprendistato (+17%), 1.676.000 di contratti a tempo indeterminato e 934.000 di contratti in somministrazione (entrambi +15%). Tra gennaio e novembre 2022 tutte le tipologie di rapporti di lavoro incentivati presentano una dinamica positiva, più modesta per le attivazioni che hanno beneficiato dell’esonero giovani. Nel loro insieme i rapporti di lavoro incentivati sono cresciuti del 13%.

PMI italiane, 1 su 4 vittima di cybercrime

Tra le paure che devono affrontare le piccole e medie imprese c’è quella degli attacchi informatici. Ed è un pericolo concreto, dato che circa il 25% delle PMI italiane ha subìto una simile aggressione. Per la precisione, un’azienda su quattro è oggi interessata da problemi di sicurezza informatica.  A tal punto che aumenta la percentuale di aziende che, allarmate dalla situazione, hanno deciso di investire risorse per mettere al sicuro i propri dati. Secondo un’indagine condotta da SWG per Confesercenti sulla sicurezza delle PMI tra 10 e 50 dipendenti, si rileva che nel 2023 il 52% delle PMI investirà in sicurezza, con un impegno economico complessivo di circa 470 milioni di euro. 

La criminalità informatica è attiva anche nelle attività economiche 

La sicurezza delle informazioni è un problema che colpisce sempre di più le attività economiche. La progressiva digitalizzazione del settore terziario ha infatti portato la quasi totalità delle imprese interpellate – il 97% per l’esattezza – ad adottare uno o più sistemi informatici. Sul campione delle PMI coinvolte nella ricerca, il 90% dispone di un sistema di posta elettronica gestito internamente, il 73% ha un sito web, mentre il 61% utilizza un software o una piattaforma di gestione interna. Un altro 35% fornisce ai propri clienti una rete wi-fi, mentre il 28% gestisce un portale per il commercio elettronico. La salvaguardia dei dati e delle informazioni sensibili è un fattore critico, viste le recenti indicazioni in merito all’acquisizione, alla gestione, all’uso e all’archiviazione dei dati stessi. Per questo motivo, il 49% delle PMI ritiene di doversi impegnare di più nel settore della sicurezza dei propri dati e del proprio business, mentre una quota leggermente superiore prevede di allocare risorse a questo scopo nel corso del 2023, con una spesa media di 4.800 per azienda, per un totale di oltre 470 milioni. Eppure soltanto il 50% ha già individuato un fornitore di servizi su cui fare affidamento. 

Nel prossimo triennio investimenti importanti in cybersecurity

“Il quadro che emerge dal sondaggio, condotto sulle imprese con dieci o più dipendenti e quindi, almeno sulla carta, più strutturate e di conseguenza più motivate a garantirsi un sistema di procedure e protezione dati adeguato, ci offre infatti una duplice lettura. Da una parte un quarto delle attività intervistate ammette di avere già avuto problemi, dall’altro, solo una su due ha deciso di investire per migliorare le proprie difese” dichiara Nico Gronchi, Vicepresidente vicario di Confesercenti. “Certo, le imprese a cui è stato somministrato il sondaggio rappresentano solo il 5% del totale delle attività economiche, e non sono certamente le uniche che vogliono investire nella sicurezza dei propri sistemi. È anzi presumibile che già quest’anno almeno il 10% delle rimanenti imprese – oltre 420mila attività – investirà in cybersecurity. Prendendo come riferimento il triennio 2023-2025, possiamo stimare che le imprese nel loro complesso saranno ‘costrette’ a sostenere spese per la sicurezza informatica per circa 10 miliardi”.